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Note su “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” di Walter Benjamin

Walter Benjamin
Walter Benjamin

L’arte e la tecnica, la percezione estetica, la funzione politica dell’arte, più esattamente la politicizzazione dell’arte per combattere l’estetizzazione della politica. Per molti versi si tratta di temi irrimediabilmente invecchiati quando li si osservi come circoscritti all’epoca storica a cui si riferiscono, strumenti di una battaglia allora attuale tra le due avanguardie contrapposte, quella aristocratica del fascismo e quella rivoluzionaria del comunismo. Marinetti contro Brecht, per intenderci, futurismo contro realismo socialista, scontro tra fazioni apertamente contrapposte, scontro di guerra che prevede chiare la vittoria e la sconfitta. E invece così non è stato, da quel conflitto quale debba essere la la funzione sociale della attività artistica non è emerso in modo più chiaro, ma è certo che la fiducia in un’arte il cui agire e significato si tramuti in azione sociale è nozione che ha perduto gran parte del suo significato, inversamente sembra piuttosto che l’altro aspetto, quello dell’estetizzazione o del trasferimento dell’estetica nella vita e nella sua dimensione politica abbia finito per caratterizzare l’epoca contemporanea e che i processi che Benjamin aveva anticipato siano andati in buona misura verificandosi in quell’arte di massa che egli fu tra i primi ad analizzare. E’ a tale aspetto della sua riflessione, ancora attualissimo , che faremo riferimento in questo articolo che apre la nuova serie di contributi sull’estetica e la società del nostro Caffè.

La riproducibilità, secondo Benjamin, distruggerebbe quella che egli definisce “l’aura” dell’opera d’arte. Egli la concepisce come qualcosa di irripetibile che era presente nelle opere antiche, un qualcosa di originario che ne garantiva l’autenticità, proveniente da manipolazioni tecniche che gli dovevano apparire ogni volta uniche e non totalmente imitabili e dal fatto che l’espositività dell’opera, quella che oggi si chiamerebbe la sua fruizione, era limitata a pochi, non percepita come oggi da ognuno e ovunque, come accade per ogni immagine che sia realizzata in serie.

Per chiarezza Benjamin cita ad esempio il simulacro che riposava nascosto nella cella dei templi, che pur visibile per il solo sacerdote possedeva integro il suo valore per tutta la comunità.

La tecnica della riproduzione, afferma Benjamin, sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione e la crisi della tradizione è necessaria alla democratizzazione della massa (per i tempi a cui risale lo scritto diremo anche ai movimenti di massa). Agente esemplare di questo fenomeno è il cinema. Per Benjamin il cinema non impone il raccoglimento nell’attenzione estetica, una esigenza che egli ritiene specifica dell’arte tradizionale perché legata al rituale, ma invita ad una sorta di partecipazione che si potrebbe definire, come egli fa, una attitudine alla ricezione sospesa o all’esaminare distratto (oggi si direbbe “effetto subliminale”) che nel contempo sembra poter consentire una maggiore identità dello spettatore con l’opera e, in particolare , l’accesso a quel nuovo modo di percepire la realtà che prima la fotografia e che poi la fotografia in movimento hanno inaugurato presso la grande massa del pubblico. Così il cinema sarebbe diventato lo strumento privilegiato della diffusione della cultura politica democratica tra le masse, ammesso che a utilizzarne le potenzialità fossero forze democratiche anziché oscurantiste. Benjamin si riferiva alle caratteristiche nuove e specifiche della tecnica cinematografica che, come si è visto, fu manipolata con non minore efficacia dai nazionalsocialisti che dai compagni di strada dello stesso autore, anzi, sarà proprio nella Germania dell’epoca che l’arte del film conoscerà le basi delle sue metodologie future.

Le osservazioni di Benjamin sulle peculiarità della tecnica cinematografica sono in effetti illuminanti e vertono sostanzialmente su due aspetti che contribuirebbero a mutare la risposta percettiva dello spettatore nei confronti dell’opera: si tratta naturalmente della illusione di realtà generata attraverso il movimento dalla serie di fotogrammi giustapposti nel montaggio (che Benjamin definisce una “natura di secondo grado”) e la particolare conoscenza empatica che la capacità di indagine della macchina da presa consente attraverso primi piani , ralenti, l’acuta oggettivazione del dettaglio e in genere gli artifici tecnici propri del mezzo, i quali permettono allo spettatore di “entrare “ nella realtà stessa della immagine filmata come a farne parte. A corollario di questa analisi Benjamin osserva, ed è una profonda osservazione, che tutto ciò produce un interscambio tra il film, opera d’arte, e lo spettatore, di un genere che mai prima era avvenuto nella storia della percezione e della società. E’ una questione di distanza: mediante la tecnica cinematografica l’arte perde tutta la sua ieraticità, la sua “aura”,filtrata attraverso il realismo del film,si ravvicina allo spettatore e diviene materialità, fenomeno autenticamente democratico. Similmente egli ritiene debba accadere in letteratura, come in effetti accadrà, quando prevede che nel futuro tenderà a scomparire la tradizionale distanza che separava chi scrive da chi legge e scorge l’origine del processo anche qui di scambio reciproco nell’ abitudine che andava allora diffondendosi di manifestare il proprio pensiero non professionale per mezzo delle lettere al direttore dei quotidiani.

Con queste analisi, benché frammentarie, benché il suo scritto sia datato per altri versi, Benjamin intendeva ottenere una ridefinizione dei rapporti tra arte e comunicazione e arte e società, e alla introduzione di una interpretazione dell’arte arte per le masse che passava attraverso l’abbandono della tradizione, giungendo così al cuore stesso del problema e prefigurando lucidamente quegli scenari futuri che in larga misura si sono venuti poi delineando secondo quanto egli aveva anticipato.

Ciò nondimeno, mentre la sua interpretazione sociologica della attività artistica o del suo futuro fu corretta previsione, potrebbe essere che alcuni suoi concetti di fondo circa la natura dell’arte stessa necessitino di qualche modesta critica e correzione, poiché permane un conflitto tra arte e società che è dubbio affermare la tecnologia, con il suo intervento sull’estetica, abbia potuto nel mondo contemporaneo sanare e, nel medesimo tempo, accade a Benjamin ciò che accade ad altri non specialisti quando trattano delle cose artistiche i quali “ spostando la loro attenzione sul contesto sociale come principale fonte di significato finiscono anche per svalutare le nozioni fondamentali sul valore dell’arte moderna”.

I due criteri a cui Benjamin si affida per illustrare la rottura della continuità tra l’arte antica e quella moderna rispondono, come si è detto, alla perdita di “aura” o di autenticità della prima e alla acquisizione della serialità che caratterizza il prodotto artistico mediante le nuove tecniche di riproduzione tecnologica che condizionano la produttività artistica a venire.

Ma che cosa sarebbe dunque esattamente questa “aura” di cui le opere antiche disporrebbero e che la riproducibilità tecnica avrebbe distrutto? Benjamin la descrive come “ l’hic et nunc dell’opera d’arte la cui esistenza unica è irripetibile nel luogo in cui si trova” e afferma anche che“ciò non vale soltanto per l’opera d’arte, ma anche e allo stesso titolo, ad esempio, per un paesaggio che in un film si dispiega di fronte allo spettatore, in un processo che investe, dell’oggetto artistico, un ganglio che in nessun oggetto naturale è così vulnerabile, cioè la sua autenticità”. E ancora: “Il processo è sintomatico; il suo significato rimanda al di là dell’ambito artistico. La tecnica della riproduzione sottrae il riprodotto all’ambito della tradizione. Moltiplicando la riproduzione essa pone al posto di un evento unico una serie quantitativa di eventi”.

Con ciò Benjamin stabilisce una cesura netta tra l’arte tradizionale e quella moderna (e contemporanea) quando allude ai fenomeni artistici tradizionali come ogni volta unici rispetto a quelli dell’epoca tecnologica che sono invece sempre frutto di replica (nel contesto contemporaneo si perde la distinzione tra originale e copia) e, più ancora, nel citare la vulnerabilità dell’arte come prodotto naturale fissa il motivo del distacco tra l’una e l’altra arte di modo che appare chiaro che cosa in realtà debba ora intendersi per “aura”o meglio, da che cosa scaturisca questa proprietà nell’opera d’arte dell’origine; da nient’altro che il suo rapporto non tecnologicamente mediato tra la genesi della forma stilistica e la sua coesione con la natura come forma. Concetto che ritorna espresso in tutta evidenza in un altro suo saggio sull’argomento sul collezionista e storico dell’arte Eduard Fuchs di cui riporta l’opinione secondo la quale l’arte antica nel suo complesso non fu che il meglio che l’animalità potesse esprimere.

Allo stesso modo accade quando Benjamin fa riferimento alla differenza esistente tra la percezione diretta di un paesaggio e la sua visione filmata dove la contemplazione diretta è null’altro che la contemplazione della natura mentre la sua immagine riprodotta ne rappresenterebbe, e qui Benjamin è involontariamente chiarissimo, “una seconda natura”.

Ammesso che per Benjamin e anche per noi si diano ormai due concezioni distinte dell’oggetto artistico, l’una in cui il rapporto tra manipolazione tecnica e opera si potrebbe definire naturale e l’altro mediato da tecnologie il cui rapporto con la natura s’è irrimediabilmente spezzato; è necessario tuttavia ricordare che nelle interpretazioni sociologiche degli sviluppi dell’arte moderna ricorrono comunque fraintendimenti circa il suo statuto di cui già Benjamin era caduto vittima e che in seguito la critica specialistica ha provveduto a correggere.

Non è vero , per esempio, o almeno non è del tutto vero, che la nascita della tecnica fotografica abbia modificato in modo radicale il processo della creazione artistica. Lo storico dell’arte sa bene che esistono nella storia delle immagini numerosi esempi in cui la concezione dello spazio che in seguito sarà caratteristica della nuova tecnica viene prefigurata e anticipata con opere in cui il cosiddetto “taglio fotografico” si palesa evidente ben prima della nascita della fotografia stessa. Anzi si potrebbe in buona misura dimostrare che è stata spesso l’autonoma ricerca formale dell’artista a contaminarla e a imporre alla fotografia l’applicazione delle sue leggi. Tutto ciò lo si può rintracciare nelle vedute di Canaletto, come nel particolare ordinamento prospettico della stampa giapponese (la cui conoscenza influirà sull’arte moderna ben più della fotografia) o, per fare un riferimento più attuale, nei disegni del fumettista Milton Caniff, le cui chine tracciate a pennello o con la punta di una canna di bambù valsero ad ispirare le immagini di jungla esotica nei films hollywoodiani contribuendo a determinare lo stile a suo modo affascinante di quelle opere di facile consumo.

Discorso non dissimile va fatto per il rapporto tra l’opera d’arte e la serialità della riproduzione. Vi è in effetti già ampia manifestazione di serialità nelle opere dell’arte del passato e tuttavia, non per questo, tali opere manifestano la perdita della loro “aura” originaria. Lo si può affermare a proposito di molta parte delle realizzazioni dell’arte ceramica, sia greca , che orientale, che frutto del meraviglioso arcaismo ripetitivo degli indiani pueblos o hopi. Benjamin soggiace qui al pregiudizio caratteristico di coloro , e sono ancora molti, i quali ritengono che la creatività sia sostanzialmente, in ogni istante del suo agire, non altro che ispirazione e che l’oggetto d’arte sia sempre il risultato dell’associazione di essa con una superata mentalità individualistica. Ma basta per esempio rivolgersi ai rilievi architettonici di un tempio precolombiano o all’iterativo sensualismo, energetico quanto assente, di un edificio di culto indiano, per scoprire di quanta grammaticale ridondanza siano caratterizzate simili opere, nelle quali individualismo, serialità, eccellenza tecnica e rispetto della tradizione si mescolano in un flusso indistinto.Un flusso che a sua volta già possiede quel carattere di narrazione che nel cinema si svilupperà nelle sequenze in movimento.

Dunque né “ l’aura” (qualità che sia detto per inciso non doveva essere percepita dagli antichi di fronte alle loro opere , ma che doveva diventare oggetto di analisi solo dopo la prima teoria del bello in estetica concepita da Winckelmann alla fine dell’epoca illuminista e al sorgere dell’epoca romantica ) né il principio della serialità distinguono in sé per sé l’attività artistica tradizionale da quella dell’era tecnologica avanzata, sono semmai proprio le potenzialità nuove, anche sconvolgenti, di questa tecnologia che appaiono a Benjamin essere dotate di una qualche magia particolare , di un’”aura” speciale. Di quel senso della meraviglia che ha catturato la prometeica psicologia occidentale sin dall’apparire del primo automa di Vaucanson e che oggi è, a tutti gli effetti , la sola vera estetica delle masse. Intendiamo la tecnologia come forma, meglio, come “seconda natura”, piuttosto che tecnologia come medium di un’arte nuova, democratica o meno che sia.

La ricerca artistica intanto ha proceduto per suo conto in quanto autonoma riflessione, con i suoi propri mezzi e i suoi propri linguaggi, basti pensare ad alcune manifestazioni fondamentali dell’arte del novecento, a Paul Klee e alla sua minuziosa analiticità astratta, oppure al versante dell’espressionismo di Jackson Pollock, alla gestualità moderna che si incontra con l’attitudine alla meditazione degli antichi in un riallacciarsi tra tradizione e attualità. A fronte di simili esperienze l’arte che si rifà alla natura biologica dell’uomo non appare del tutto morta e potrebbe sopravvivere solo che l’artista non decida di soggiacere alla meraviglia e allo spavento che la divinità tecnologica gli incute.

Resterebbe dunque , tra le tante altre cose, ancora da fare un commento più approfondito circa quella “seconda natura” generata nella percezione dell’arte dalla forza della tecnologia e soprattutto dalla capacità del cinema e poi di tutti gli altri media visuali a venire di mostrare l’immagine come un vissuto in movimento consentendo allo spettatore di volare sospeso tra le intricate vie della Metropolis di Fritz Lang, ma allo stesso tempo inducendo ciascuno ad allinearsi costretto e confuso tra le masse piegate che popolano quella pellicola, sino all’approdo attuale alla virtualità assoluta, nella quale libertà estetica e condizionamento sociale finiscono per coincidere chimericamente.

E però anche di questa forma di esperienza percettiva, fenomeno che va “oltre lo stesso ambito artistico” vi è almeno (ma non soltanto) un significativo precedente nella storia dell’arte tradizionale e proprio nella pittura da cavalletto con i suoi poveri materiali e metodi di applicazione. La si ritrova nella immagine della sua stanza che Vincent van Gogh dipinse ad Arles, un percorso chiuso di inquietante incertezza realizzato da un artista che disponeva nella retina di un suo grandangolo naturale in grado di rendere dell’immagine vissuta tutti gli aspetti dell’allucinatorietà. Ma questo è in parte già un altro discorso, poiché è in definitiva comunque vero ciò che Benjamin ha affermato circa la “seconda natura” dell’arte scaturita dalle moderne tecnologie, ma questa seconda natura piuttosto che appartenere al mondo della ricerca artistica , tende a fare il suo ingresso in un sentiero i cui meandri oscuri forse l’arte tradizionale aveva saputo meglio illuminare con la lucidità dell’esperienza individuale, il sentiero che conduce al campo ben più vasto del sogno e dell’ inestricabile legame che esso intrattiene con la realtà, per quanto tecnologica e disincantata essa si voglia mostrare.


Walter Falciatore